Folclore
Tradizione culturale – Antropologia – Demopsicologia
INDICE
1.- Le prime inchieste sul fenomeno
2.- Significato del Folk-lore di Renè Guenon
3.- Le tradizioni in Abruzzo
- 3.1.- I serpari di Cocullo
- 3.2.- Aristorcrazia gastronomica in Abruzzo
- 3.3.- La cucina teramana
4.- I tarocchi tra tradizione e d esoterismo (vedere il sito www.letarot.it di Andrea Vitali. Si vedano in particolare le voci : /l’oroscopo di Gesù/; /Castel del Monte/;/ lappeso e la cifra 4/….. ma le voci interessanti sono centinaia!)
1.- Le prime inchieste sul fenomeno.
Il termine folclore o folklore, dall’inglese folk, “popolo”, e lore, “sapere”, fu coniato da tale William Thoms (1803-1900), per ottenere un neologismo, che fosse sinonimo di quanto si possa attenere alle tradizioni popolari, ovvero quelle forme contemporanee di aggregazione sociale incentrate sulla rievocazione di antiche pratiche popolari, spesso tramandate solo oralmente. Tra queste citiamo le canzoni e le credenze popolari, i piatti di cucina locale, le fiabe, le filastrocche, proverbi, , musica, danza, magari con riferimento ad a una determinata popolazione, miti, , leggende, Il termine fu poi accettato dalla comunità scientifica internazionale dal 1878, per indicare quelle forme contemporanee di aggregazione sociale incentrate sulla rievocazione di antiche pratiche popolari, ovvero tutte quelle espressioni culturali comunemente denominate “tradizioni popolari”, dai canti alle sagre alle superstizioni alla cucina (e che già due secoli prima Giambattista Vico chiamava “rottami di antichità”). La documentazione che più di ogni altra ha dato l’avvio allo studio delle tradizioni popolari e dunque al folclore inteso come scienza è stata l’inchiesta napoleonica del 1809–1811, svolta nel Regno d’Italia sui dialetti e i costumi delle popolazioni locali. L’inchiesta fu posta in essere principalmente per individuare ed estirpare pregiudizi e superstizioni ancora esistenti nelle campagne italiche. Gli atti dell’inchiesta e le relative illustrazioni allegate sono custoditi nel castello Sforzesco di Milano. Una successiva inchiesta post-napoleonica, curata da don Francesco Lunelli (1835–1856), riguardò il territorio del Trentino e il Dipartimento dell’Alto Adige (con particolare attenzione ai proverbi riguardanti le donne del Trentino), rimasti esclusi dall’indagine napoleonica perché erano territori all’epoca non ancora aggregati al Regno d’Italia.
Michele Placucci. La prima opera di rilievo, che anticipa di quasi cinquant’anni il metodo della demologia scientifica italiana con una precisa classificazione del materiale, è il trattato sulla regione Romagna del forlivese Michele Placucci. Egli, avvalendosi di diversi documenti, soprattutto di quelli raccolti all’epoca dell’inchiesta napoleonica (come quanto redatto da Basilio Amati, cancelliere del censo a Mercato Saraceno), a cui aggiunge anche altro materiale (ad esempio, dalla Pratica agraria dell’abate Battarra), pubblica, a Forlì nel 1818 (Tipografia Barbiani), l’opera intitolata Usi e pregiudizj de’ contadini della Romagna[2]. In Placucci ad esempio, si racconta che i contadini romagnoli usavano mangiare fave nell’anniversario dei morti (cioè il 2 novembre), perché comunemente si riteneva che questa pianta avesse il potere di rafforzare la memoria, così che nessuno dimenticasse i propri defunti. Altra tradizione arcaica riportata dal Placucci è quella di confezionare il ripieno dei cappelletti privo di carne. A quel lavoro, altri faranno seguire numerose pubblicazioni dedicate ad altre regioni italiane.
Giuseppe Pitrè. L’intellettuale che ha dato poi origine allo studio sistematico, su base scientifica, del folclore italiano, è il medico palermitano Giuseppe Pitrè (1841–1916) che, dopo aver dato alle stampe la «Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane», ha realizzato un’opera editoriale insuperabile (per ricchezza di informazioni), la «Bibliografia delle tradizioni popolari italiane» nel 1894 e la «Rivista Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» pubblicata ininterrottamente dal 1880 al 1906. Per primo Pitrè ottenne nel 1911 a Palermo una cattedra universitaria per lo studio delle tradizioni popolari, sotto il nome di demopsicologia.
Antiche tradizioni popolari ad Agrigento
Storico Carnevale di Ivrea – Battaglia delle arance
2.- Significato del folk-lore (René Guénon)
Da:http://www.alchemica.it/folklore.html
La concezione di folk-lore, come la si intende abitualmente, riposa su di un’idea radicalmente falsa; sull’idea, cioè, che vi siano delle “creazioni popolari”, prodotti spontanei della massa del popolo: e si vede subito lo stretto rapporto esistente fra un simile modo di vedere e i pregiudizi democratici. Come è stato detto assai giustamente, “l’interesse profondo che tutte le tradizioni dette popolari presentano, sta soprattutto nel fatto che esse, in origine, non sono affatto popolari”. E noi aggiungeremo che se si tratta, come in quasi tutti i casi, di elementi tradizionali nel vero senso del termine, anche se talvolta deformati, diminuiti o frammentari, e di cose aventi un valore simbolico reale, tutto ciò, lungi dall’essere d’origine popolare, non è persino nemmeno di origine semplicemente umana. Ciò che può esser “popolare”, è unicamente il fatto della “sopravvivenza”, quando questi elementi appartengono a forme tradizionali scomparse; e, a tale riguardo, il termine di folk-lore prende un senso assai prossimo a quello di “paganismo”, non tenendo conto che del valore etimologico di quest’ultimo, con in meno l’intenzione polemica e ingiuriosa.
Il popolo conserva dunque, senza comprenderli, residui di tradizioni antiche, risalenti talvolta persino a un passato così lontano, che sarebbe impossibile determinarlo e che ci si contenta di riferire, per tale ragione, al dominio oscuro della “preistoria”; esso, a tale riguardo, ha la funzione di una specie di memoria collettiva più o meno “subcosciente”, il contenuto della quale le è manifestamente venuto d’altrove. E’ una funzione essenzialmente “lunare”, ed è da notarsi che, secondo la dottrina tradizionale delle corrispondenze astrali, la massa popolare corrisponde effettivamente alla Luna, ciò che indica assai bene il suo carattere puramente passivo, incapace di iniziativa o di spontaneità.
Quel che può sembrare più sorprendente, è che, andando in fondo alle cose, si constata che quanto in tal modo diviene conservato, contiene soprattutto, in forma più o meno velata, una somma considerevole di dati d’ordine esoterico, cioè riferentisi ad un piano di conoscenza trascendente, epperò proprio quel che vi è di meno popolare per essenza. E questo fatto suggerisce da sé una spiegazione, che noi ci limiteremo a indicare in qualche parola. Quando una forma tradizionale è sul punto di estinguersi, i suoi rappresentanti possono benissimo confidare volontariamente a quella memoria collettiva, di cui abbiamo or ora parlato, quel che altrimenti andrebbe irrimediabilmente perduto. E’, insomma, il solo modo di salvare quel che può essere ancora salvato in una certa misura. E, in pari tempo, l’incomprensione naturale delle masse è una garanzia sufficiente che quel che possedeva un carattere esoterico con ciò non venga a perderlo ma resti soltanto come una specie di testimonianza del passato per coloro che in un’altra epoca saranno capaci di comprenderlo.
Per quanto riguarda il simbolismo, non sapremmo mai ripetere abbastanza che ogni vero simbolo porta in sé molteplici sensi, e ciò fin dall’origine, poiché esso non viene costituito in virtù di una convenzione umana, ma in virtù della “legge di corrispondenza” che collega fra loro tutti i mondi. E se alcuni vedono questi significati e altri no, o solo in parte, ciò non vuol dire che essi vi son meno contenuti realmente, e tutta la differenza si riferisce all’ “orizzonte intellettuale” di ciascuno. Checché se ne pensi dal punto di vista profano, il simbolismo è una scienza esatta, non una divagazione ove le fantasie individuali possono aver libero corso.
In tale ordine noi non crediamo dunque nemmeno alle “invenzioni dei poeti”, alle quali tanti sono disposti a ridurre quasi ogni cosa. Tali invenzioni, lungi dal riguardare l’essenziale, non fanno che dissimularlo, volontariamente o no, avvolgendolo con le apparenze ingannatrici di una qualunque “finzione”: e talvolta esse lo dissimulano fin troppo bene poiché, quando si fanno troppo invadenti, diviene quasi impossibile scoprire il senso profondo e originario. E non è così che fra i greci il simbolismo degenerò in “mitologia”? Questo pericolo è da temersi soprattutto quando lo stesso poeta non ha coscienza del valore reale dei simboli poiché è evidente che tal caso può ben presentarsi. L’apologo dell’ “asino che porta le reliquie” si applica qui come a tante altre cose. E il poeta, allora, avrà una parte analoga a quella del popolo profano conservante e trasmettente a sua insaputa quei dati di carattere superiore, “esoterico”, di cui dicevamo più su. Renè Guenon
3.1.- Festa dei serpari (Wikipedia, l’enciclopedia libera).
Tipo di festa |
religiosa |
Data |
Dal 2012 sempre il primo giorno di maggio (fino al 2011 era il 1º giovedì di maggio) |
Periodo |
primavera |
Celebrata in |
|
Celebrata a |
|
Religione |
|
Oggetto della celebrazione |
|
Feste correlate |
Festa patronale di Villalago (San Domenico) |
Tradizioni religiose |
devozione a San Domenico |
Tradizioni profane |
culto dei serpenti e di Angizia |
Data d’istituzione |
dopo il 1031 anno di morte di San Domenico |
Altri nomi |
Festa di San Domenico a Cocullo |
La festa dei serpari si svolge a Cocullo il 1º maggio a partire dal 2012; precedentemente aveva luogo il primo giovedì di maggio.
La festa si svolge in onore di san Domenico abate ma ha origini antiche e si ricollega al rito pagano di venerazione della dea Angizia.
San Domenico risulta essere particolarmente venerato a Cocullo, ma anche a Villalago, perché è il patrono di entrambi i paesi abruzzesi. Difatti a Cocullo vengono conservate due reliquie del santo: un molare ed un ferro della sua mula. Un altro molare del santo è conservato nella chiesa principale di Villalago.
Ogni anno a maggio si celebra a Cocullo un antichissimo rito, trasformatosi oggi in una festa sacra–profana. Tutto ha inizio con i serpari che alla fine di marzo si recano fuori paese in cerca dei serpenti. Una volta catturati, vengono custoditi con attenzione in scatole di legno (in tempi remoti dentro dei contenitori di terracotta) per 15-20 giorni nutrendoli con topi vivi e uova sode. Questa usanza è legata ai riti pagani dei Marsi, antico popolo italico. In epoca contemporanea viene celebrata in onore di San Domenico che è ritenuto protettore dal mal di denti, dai morsi di rettili e dalla rabbia. San Domenico era un monaco benedettino di Foligno che attraversò il Lazio e l’Abruzzo fondando monasteri ed eremitaggi. A Cocullo si fermò per sette anni, lasciando un suo dente e un ferro di cavallo della sua mula, divenute delle reliquie. Per questo la mattina della ricorrenza, nella chiesa a lui dedicata, i fedeli tirano con i denti una catenella per mantenere i denti stessi in buona salute e poi si mettono in fila per raccogliere la terra benedetta che si trova nella grotta dietro la nicchia del santo. La terra sarà poi tenuta in casa come protezione dagli influssi malefici, sparsa nei campi per allontanare gli animali nocivi oppure sciolta nell’acqua e bevuta per combattere la febbre. Tale festa per alcuni studiosi è da correlare ai culti della dea Angizia, venerata presso gli antichi Marsi. Per altri studiosi invece, la si deve attribuire alla mitologia di Eracle. Infatti nella frazione di Casale sono stati rinvenuti bronzetti votivi raffigurante proprio Eracle che, come si sa, strangolò nella culla i due serpenti mandati da Era per ucciderlo [1].
Leggende sulle origini della festa
Secondo la tradizione locale, il santo cavandosi il dente e donandolo alla popolazione di Cocullo, fece scaturire in essa una fede che andò a soppiantare il culto pagano della dea Angizia, protettrice dai veleni, tra cui quello dei serpenti.
Il dente di San Domenico, con probabile allusione al dente avvelenatore del serpente, diede, forse, l’idea che fece nascere la fede che portò alla festa in onore del santo.
La festa ha riconduzioni pagane, probabili residui dell’antico culto della dea Angizia. Nell’Eneide è presente la figura di Umbrone, giovane serparo dei Marsi, l’antica popolazione dell’Abruzzo: alleato di Turno nella guerra contro Enea, sarà ucciso dal capo troiano in persona.
La cattura dei serpenti
La prima fase della festa consiste nella ricerca e nella cattura dei serpenti (tutti rigorosamente non velenosi) che cominciano ad essere raccolti quando inizia a sciogliersi la neve, da persone esperte dette serpari[2]. Queste osservano le stesse tecniche dei serpari antichi anche se allora i rettili venivano posti in recipienti di terracotta, ora in cassette di legno.
Le specie di serpenti che vengono raccolte
Le specie che vengono raccolte sono quattro:
- Il cervone.
- Il saettone.
- La biscia dal collare.
- Il biacco.
La festa
La festa ha inizio con la folla che incomincia a tirare coi denti la campanella della cappella di San Domenico, all’interno della chiesa omonima. Secondo la tradizione, questa cerimonia servirebbe a proteggere i denti dalle malattie che li potrebbero affliggere.
A mezzogiorno inizia la processione della statua del santo invasa dalle serpi catturate nei giorni prima. Parte dalla chiesa di San Domenico e prosegue per le stradine del centro storico.
Ai fianchi della statua del Santo, due ragazze vestite con abiti tradizionali, portano sulla testa un cesto contenenti cinque pani sacri chiamati ciambellani in memoria di un miracolo che fece san Domenico. Questi pani vengono donati per antico diritto ai portatori della Sacra Immagine e del gonfalone.
Al termine della festa, i rettili vengono riportati al loro habitat naturale dai serpari.
- Una documentazione antropologico-visiva della Festa è stata inclusa nel Progetto Il Folklore: un bene culturale vivo, per conto del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Si veda, La Sagra dei Serpari, testo e regia di Paolo Mercurio, ricerca: Maria Teresa De Nigris, produzione Video Italia, Roma, maggio 1989; inoltre il saggio etnomusicale P. Mercurio, Cocullo, Musica e canti nella Festa di San Domenico Abate, ricordando l’antropologo Alfonso Maria di Nola, in BF magazine, maggio 2014
3.2.- Sull’aristocrazia gastronomica in Abruzzo di Ezio Sciarra
Ogni persona ha una mappa mentale del suo territorio. Attraverso il vissuto della mia mappa voglio ricordare i vertici distintivi della cultura gastronomica abruzzese. Non una rassegna sistematica dunque, ma quanto è selezionato nella mappa di un testimone diretto di oltre un cinquantennio, che ha attraversato le opinioni e le esperienze di gusto della sua gente. Le eccellenze di cui parlerò sono quelle circolanti nell’opinione comune degli abruzzesi, come autorappresentazione selettiva dell’aristocrazia gastronomica del loro territorio. Naturalmente anche nel filtro del punto di vista della mia storia, identità e appartenenza.
Quando parlo di aristocrazia gastronomica in Abruzzo intendo aristocratico nel senso etimologico de “il migliore”. Il migliore può nascere in ogni ceto e ambiente e nulla a che vedere con nobiltà e privilegi trasmessi in ceti elitistici. Il mio distinguo non è tra stili gastronomici nobili e plebei, ma tra società comunitaria quale è ancora per tanta parte l’Abruzzo e società di massa anch’essa penetrata nella regione. In entrambe esistono volgarità, anomie, violenze, ma nella società comunitaria è più facile trovare tratti aristocratici che nella società di massa. Infatti la società comunitaria anche in Abruzzo ha una storia di lunga durata che attraversa civiltà antiche e tradizionali, agricola, pastorale, artigianale, in cui l’ampia selezione del progresso del tempo ha potuto far emergere le varietà del potenziamento duraturo e personalizzato del meglio per l’uomo, mentre la società di massa recente e industriale ha una storia di breve durata di standardizzazione del funzionale tecnologico immediato sull’uomo omologato . Da un lato la lunga ricerca aristocratica del meglio per l’uomo-persona come fine, dall’altro la ricerca rapida del funzionale tecnologico sull’uomo-massa serializzato, con la massimizzazione monetaria che diventa fine.
Su questo bivio della civiltà si colloca anche l’Abruzzo diviso tra società comunitaria e società di massa. In Abruzzo la modernizzazione a partire dal dopoguerra ha introdotto distretti industriali, reti autostradali, università, giornali e televisioni, centri commerciali, rendendo inattuale e ormai sbiadita l’invenzione letteraria e pittorica di rudi pastori transumanti di d’Annunzio e Michetti, che ancora colpisce l’immaginazione di chi ignora mutamenti storici anche radicali di oltre mezzo secolo.
Ma l’Abruzzo modernizzato è anche la Regione Verde d’Europa, con trenta riserve naturali, un parco regionale ( Sirente-Velino ), tre parchi nazionali ( Parco d’Abruzzo, Lazio e Molise; Maiella; Gran Sasso e Monti della Laga), col quaranta per cento del suo territorio protetto, registrando la più alta densità di territorio sottoposto a vincolo naturalistico d’Europa. Con questo ambiente, la modernizzazione in Abruzzo non è avvenuta in modo invasivo, si é concentrata con l’urbanizzazione intensiva più recente per lo più lungo l’area costiera, ha consentito la penetrazione progressiva e a spizzico delle utili innovazioni industriali della modernità, ma senza rompere l’equilibrio con l’eredità del suo passato millenario, con le culture pastorali fiorite nei grandi altipiani non densamente popolati che registrano le montagne più alte dell’Appennino italiano, con la civiltà collinare e contadina ricca di paesi e borghi dalla storia secolare, con le tradizioni del lungo e vario litorale marino, oggi aperto agli afflussi turistici, ma da sempre aperto attraverso l’Adriatico ai collegamenti ad oriente.
Per questo equilibrio tra modernità e tradizione è ancora possibile parlare della sopravvivenza di un’aristocrazia gastronomica in Abruzzo, perché la società di massa non ho ancora distrutto la società comunitaria, nelle tradizioni delle sue culture presenti nel territorio, della montagna, della collina, del mare. La mappa che rappresento ha tre indicatori tradizionali: il tholos(casa arcaica di pietra dei pastori) per la montagna, la pinciara (casa di fango e paglia dei contadini) per la campagna pianeggiante poi collinare, il trabocco ( passerella di pali sul mare culminante con lunghi bracci cui è agganciata una grande rete per la pesca da riva) per la costa marina. Se tratto distintivo della California vista dell’Abruzzo sono le colline di Hollywood a Los Angeles, valgono a tratto distintivo dell’ Abruzzo visto dalla California gli indicatori esclusivi di tholos, pinciara, trabocco. L’Abruzzo è forse l’unico territorio al mondo che, nel breve volgere di circa un’ora d’auto, consente di passare senza soluzione di continuità dal verde-azzurro delle acque marine, al verde boschivo della campagna collinare, alle bianche nevi della montagna, colori dello stemma regionale. P_er questa sua varietà e completezza territoriale dispone di una grande varietà biologica di alimenti_ che tipizzano le civiltà della montagna, campagna e mare, di cui presentiamo una selezione di pietanze distintive e tradizionali che hanno i tratti della aristocraticità gastronomica.
Aristocrazia gastronomica significa saper esaltare le virtù anche dei prodotti più umili, significa evitare i piatti elaborati per attenersi alle composizioni essenziali, significa utilizzare prodotti sani, naturali ed ecosostenibili, significa selezionare la maggior varietà di carni pesci legumi cereali ortaggi erbe e spezie di qualità, stagionali, del territorio prossimo, significa ottenere piatti deliziosi in virtù dei saperi dal lungo collaudo sulla combinazione e preparazione degli ingredienti anche umili , significa rispettare le varietà biologiche di ogni territorio e non distruggerle, significa osservare uno stile di sobrietà ed evitare il consumismo, significa coltivare pratiche di condivisione del cibo specie in contesti rituali simbolici comunitari, significa non abbandonarsi ad adulterazioni e sofisticazioni artificiali, tra l’altro dannose per la salute, di prodotti dequalificati a basso costo per bramosia di lucro.
La aristocraticità non solo è legata alla varietà territoriale e biologica ma anche alla varietà sociale e storica. L’Abruzzo sotto questo riguardo vanta stratificazioni di identità e culture secolari, che hanno lasciato tracce rilevanti, dalla civiltà illirica a quella picena, da quella etrusca a quella romana, da quella longobarda a quella franca, da quella normanna a quella sveva, da quella angioina a quella aragonese, da quella asburgica a quella austriaca, da quella francese a quella borbonica a quella sabauda. L’intersezione di queste culture selezionate nella lunga durata determina prodotti esclusivi ed originali della società comunitaria nei cibi eccellenti e salutari, come nelle calde pratiche sociali e_ nei dialetti espressivi dalle stratificazioni secolari, contrastando le omologazioni in basso della società di massa che raffredda le relazioni sociali e produce solitudine nella folla, che standardizza cibi a basso costo per bramosia di guadagno con sofisticazioni artificiali, spesso contraffazioni, con danno per la salute, che tende al monopolio di poche tipicità ottenute con l’artificio della scienza e della tecnica da imporre a scala globale, distruggendo le varietà biologiche, le stagionalità, i prodotti locali naturali, i saperi di lunga durata sulla preparazione e combinazione dei cibi, favorendo il consumismo di prodotti serializzati per condizioni di consumo estemporanee e solitarie.
Il bivio tra modelli gastronomici aristocratici e naturali della società comunitaria alternativi a quelli standardizzati e tecnologici della società di massa non è vissuto solo in Abruzzo, ma è un confronto del nostro tempo nel mondo globalizzato che vive di estremizzazioni scompensate. Nelle settore agro- alimentare regole dell’Unione Europea inducono ad autorizzare perfino la circolazione di un vino senza uva e di un formaggio senza latte, per favorire per mere ragioni politiche ed economiche paesi che per condizioni ambientali e storiche non hanno una vera agricoltura, rispetto a paesi che vantano come l’Abruzzo ambienti e tradizioni di eccellenza. Dal lato opposto si diffonde in America ed in particolare a New York, la nuova tendenza_ promossa nei circuiti telematici di essere ospitati in casa da uno chef italiano d’eccellenza, che istruisce in modo comunitario ai saperi e ai sapori i suoi ospiti invitati a collaborare con lui alla preparazione di piatti tipici, per conoscere, riconoscere e degustare ingredienti naturali ed aristocratici dell’autentica cucina italiana, in una metropoli dove si spacciano, peraltro ad alto prezzo falsi cibi italiani, contraffatti e di pessimo gusto con troppa frequenza. La ristorazione di uno chef di qualità autentica condivisa con partecipazione personalizzata nella calda convivialità domestica, contrasta con le regole di freddo calcolo economico che diffondono una omologazione in basso in un mondo globalizzato e impersonale a mezzo di ingredienti artificiali e sapori snaturati. ln questo conflitto irrisolto di tendenze su cui si gioca un importante livello della nostra civilizzazione l’Abruzzo ha ancora un posto come risorsa per l’ affermazione della cultura della qualità della vita sulla quantità del lucro, dell’autentico sull’artificio, della persona sul mezzo.
Dobbiamo sperare, perché sulla tradizione di qualità rappresentata dai Valentini e dai Pepe, dai Montori e dai Marramiero, tra i tanti affermati da tempo dell’aristocrazia enogastronomica in Abruzzo, si profilano e competono nuove generazioni colte, tra cui spiccano laureati_ non solo in agraria, ma anche in economia o in filosofia. Tendenza emergente di giovani imprenditori delusi dei loro primi orientamenti, autenticamente riconvertiti alla cultura della terra, che sono divenuti nella comunità abruzzese produttori di eccellenze come Massimiliano D’ Addario nell’olio di oliva, come Daniele Di Giuseppe nel formaggio pecorino, come Francesco Visciotti nell’agricoltura omeodinamica aggiornamento della biodinamica, come Sofia Pepe nel vino Montepulciano proseguendo_ e migliorando la tradizione alta della famiglia, _capaci per le loro diverse culture di immettere forte innovazione e originalità di visione, sulla linea del comune contrasto alle surfetazioni di un mondo antiecologico, alla ricerca della qualità gastronomica, della salute, dell’ambiente.